Nelle ultime assemblee delle/degli insolventi abbiamo parlato molto di reddito di base incondizionato. Riprendiamo le 6 “FAQ” di San Precario, sintetiche e chiare, perchè ci sembra che prima di ogni altra cosa sia importantissimo diffondere una corretta informazione su cosa è (e su cosa non è) il Reddito di Base Incondizionato (rbi).
1. Cos’è il reddito di base incondizionato (Rbi)?
È una misura di welfare (sicurezza sociale) che parzialmente esiste in tutti i paesi dell’Unione europea eccetto Italia e Grecia: un sostegno economico alle persone con un lavoro intermittente o disoccupate. Varia da poche centinaia di euro ai 1.200 al mese della Danimarca e Lussemburgo. Secondo noi in Italia dovrebbe essere almeno di 720 euro al mese (20% in più della soglia di povertà relativa).
Oggi ammortizzatori sociali come la cassa integrazione o il sussidio di disoccupazione sono riservati a chi ha perso un lavoro a tempo indeterminato e determinato, il Rbi invece dovrebbe essere dato a tutte le persone che hanno un reddito inferiore ai 720 euro/mese, per esempio ai precari tra un contratto e l’altro, ai disoccupati e ai lavoratori/trici che pur impiegati/e guadagnano salari da fame, inferiori ai 720 euro/mese, in modo incondizionato, ovvero slegato sia dal tipo di contratto precedente che dall’obbligo di accettare qualsiasi impiego proposto o i programmi di inserimento lavorativo.
2. Di fronte a una misura del genere, chi lavorerebbe?
Casomai il reddito darebbe a ciascuno la possibilità di scegliere il lavoro. Nessuno vorrà più fare lavori pesanti e poco considerati? No, non necessariamente. Ogni prestazione lavorativa ha le sue specificità ed è la sua remunerazione a rendere un lavoro più o meno accettabile e vantaggioso. La garanzia di reddito, riducendo l’offerta di persone disposte ad accettare lavori mal pagati, alienanti e faticosi, pone le imprese di fronte a un bivio: pagare meglio chi svolge queste mansioni oppure adottare tecnologie e soluzioni organizzative più complesse in loro sostituzione. Obiezioni simili ci furono al tempo dei dibattiti sulla riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere; il risultato è stato non solo un netto miglioramento delle condizioni dei lavoratori ma anche una crescita.
3. Quanto costa una simile misura e dove si trovano le risorse?
Secondo i nostri calcoli, una misura di Rbi di 720 euro/mese necessita poco meno di 35 miliardi. Al netto dei sussidi oggi esistenti di uguale entità (pensioni sociali e di invalidità, sussidi di disoccupazione, indennità e casse integrazioni), le risorse effettive da aggiungere sono pari a 15,7 miliardi. Una cifra del tutto abbordabile che dovrebbe essere a carico della collettività (e non finanziato dai contributi sociali dell’Inps, come avviene oggi per i sussidi al reddito).Il sistema fiscale si basa sulla tassazione dei fattori produttivi. Oggi si tassano solo il lavoro dipendente (tanto), la proprietà delle macchine (poco) e il consumo (molto). Ma oggi ci sono ben altri fattori produttivi: la finanziarizzazione, la conoscenza, lo spazio. Si potrebbero tassare le transazioni finanziarie, anche solo per lo 0,01%; i diritti di proprietà intellettuale; i grandi patrimoni immobiliari che lucrano sugli spazi delle città. Ma anche l’uso delle forme contrattuali atipiche: ad esempio, introducendo l’Iva sull’intermediazione di lavoro effettuato dalle agenzie interinali. E poi ci sono le spese che potrebbero essere soppresse: avete mai sentito parlare degli F35 che la Difesa sta acquistando al prezzo di una finanziaria (15 miliardi di euro in tre anni!)? Si è parlato molto di patrimoniale. Una sua introduzione a livelli simili a quelle di molti paesi europei porterebbe da sola nelle casse dello Stato più di 10 miliardi. In altre parole, la questione non è di fattibilità ma di volontà politica. E notate bene: non abbiamo nemmeno citato l’evasione fiscale…
4. Chi lo dà?
Il Rbi potrebbe essere erogato da una Cassa Sociale per il reddito (Csr), all’interno di un bilancio autonomo di welfare, dove si registrano i soldi messi a disposizione e le uscite, con mandato agli sportelli per l’impiego, disseminati nei diversi comuni, di raccogliere le domande ed erogare il reddito. Un bilancio autonomo del welfare, centralizzando in un unico ambito tutti i centri di spesa (oggi a carico di diversi ministeri) rende razionali e trasparenti entrate e uscite relative a tutte le tematiche del welfare, con risparmi di spesa e minor possibilità di condizionamento lobbysta. Inoltre si sancirebbe finalmente la separazione tra previdenza (a carico dell’Inps) e politiche di sostegno al reddito.
5. Perché il Rbi non è assistenzialismo?
Oggi si lavora ben al di là del rapporto di lavoro. Il tempo per la formazione e l’aggiornamento, il tempo dedicato alla ricerca di lavoro, il tempo per raggiungere il luogo di lavoro, il tempo di cura e di consumo: tutto produce ricchezza, fa parte dell’attività lavorativa ma grava sulle spalle dei singoli. Inoltre negli ultimi vent’anni le imprese italiane hanno prosperato sfruttando la precarietà, risparmiando sui salari e mantenendo alti i profitti. Altro che assistenzialismo, il reddito minimo sarebbe la restituzione di una piccola parte del maltolto.
6. Il reddito annullerebbe i conflitti sul luogo di lavoro?
La garanzia di reddito diminuisce la ricattabilità individuale, la dipendenza, il senso di impotenza di lavoratori e lavoratrici nei confronti delle imprese. Richiedere un reddito minimo è la premessa perché i precari, disoccupati e lavoratori con basso salario possano sviluppare conflitto sui luoghi di lavoro. Oggi il ricatto del licenziamento o di mancato rinnovo del contratto, senza nessun tipo di tutela, è troppo forte. Precari e precarie possono subire ritorsioni anche solo per aver distribuito un volantino sindacale. Il reddito, unito a garanzie contrattuali dignitose e ad un salario minimo, renderebbe tutti meno ricattabili e quindi più forti. E perrmetterebbe di chiedere il miglioramento delle proprie condizioni lavorative e contrattuali